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Slow fashion sì, ma attenti alle trappole

Si parla tanto di fine della fast fashion e boom dello slow fashion, e questo non può che rallegrarci. Siamo stati sommersi da stracci per troppi anni, robaccia destinata ad una rapidissima trafila vetrina / armadio / discarica nel giro di qualche settimana. D’altronde, si tratta di capi montati alla meglio con non-stoffa che sembra carta, o con filati sintetici infimi, che spesso non reggono neppure al primo lavaggio in lavatrice disfacendosi sotto i nostri occhi.

E poi, la provenienza: Paesi dove regna lo sfruttamento selvaggio e il lavoro a catena pagato una miseria e a cottimo. Anche le grandi firme si servono degli sweatshops nel Terzo Mondo: la verità è che le borsette da mille euro spesso, all’origine, non ne costano più di venti. E quello probabilmente valgono.

Fashion revolution, ma con giudizio

I consumatori consapevoli, finalmente, hanno capito che rivolgersi all’usato vintage è la strada migliore. Lo slow fashion si sostituisce alla fast fashion, un po’ come accadde per lo slow food, ed è un tripudio di idee tra abiti a noleggio, linee di moda etica e sostenibile, store di vintage online e ritorno ai mercatini (Covid permettendo). E’ la fashion revolution, che sta cambiando il mondo della moda a gran velocità. 

Ma è tutto oro ciò che riluce? Non tanto. Occorre prestare attenzione a ciò che si fa, prima di abbandonarsi all’entusiasmo con l’illusione di “salvare il pianeta”. Rispolvero allora la mia professione giornalistica per provare ad osservare il green con la lente di ingrandimento.

Banksy slave labour

Gli straccivendoli

Anzitutto, ecco il gran ritorno degli straccivendoli. Non che ci sia nulla di male (anzi!) ad acquistare una felpa usata per pochi euro. Sempre di riciclo virtuoso si tratta. Ma se quella felpa di tre anni fa è spacciata come “vintage anni ’90” e venduta al quadruplo di quel che vale, allora si tratta di furberia. Abiti donati in beneficenza, o recuperati dalle discariche, vengono talvolta rivenduti come preloved quando preloved proprio non sono: sarebbe giusto saperlo prima, e non farci imbambolare da romantiche descrizioni sull’armadio della nonna. Sui giornali a volte si scopre che il lucroso business coinvolge persino la mafia, che fa affari con traffici di merce usata addirittura a livello internazionale.

hion stracci

Occhio al “sostenibile”

Anche sulla moda etica, ovvero il nuovo sostenibile, c’è da fare la tara. Anzitutto, grandi multinazionali dell’abbigliamento fast stanno fiutando il business e producendo linee parallele che vantano filati naturali, biologici, vegani e quant’altro risuoni convincente. Quando acquistiamo, i nostri soldi finiscono sempre in quelle tasche lì: dobbiamo decidere se la cosa ci sta bene. Inoltre, se un capo nuovo vuol essere davvero sostenibile, non può essere prodotto nelle stesse fabbriche fast: c’è poco di sostenibile in una camicia “biologica” cucita da un bambino sottopagato. Informiamoci prima non solo sulla qualità, ma anche sulla provenienza della stoffa e su chi ha cucito ciò che stiamo comprando. Per tacere del greenwashing di cui sono stati recentemente accusati grandi marchi globali: non basta pubblicizzare “questo è green!” perché lo sia davvero. E noi non facciamoci ingannare dalle parolette alla moda.

Slow fashion revolution

Km zero è meglio

Il km zero, poi, è importante anche quando ci vestiamo e non solo per la mela al mercato. Ci sono sicuramente, nella nostra città, giovani sarte o negozietti artigianali che con fatica e tanto lavoro propongono fashion in uno stile originale e magari anche a prezzi contenuti. Facciamo un giro, diamo un’occhiata e diamo loro una chance. Comprare su Etsy una maglia fatta dall’artigiana tanto creativa, ma che magari vive in Inghilterra o in America, non è esattamente virtuoso: l’inquinamento peggiore arriva proprio dal sistema di trasporto internazionale. Far volare aerei per consegnarci una maglia etica, è davvero poco etico!

Slow fashion sarta

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1 commento

  1. Rossella dice:

    Articolo illuminante e ricco di spunti.
    Grazie

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